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L’etichetta per definirmi “femminista” non la tollero particolarmente, perché secondo me “dovremmo essere tutti femministi” come dice un libro a cui sono molto affezionata e che consiglio a tutti di leggere.
E forse femminist* non si nasce ma lo si diventa (semicit). E allora se dovessimo vederla tramite questa prospettiva io femminista lo sono diventata.
Lo sono diventata in un momento particolare della mia vita (spoiler: tale momento non è ancora superato); un momento in cui ho iniziato a guardarmi distorta nello specchio, mi sentivo sempre meno, per dirla con un paragone tutti gli altri erano il gelato con la fine del cono al cioccolato ed io al massimo ero quello all’amarena, e a me l’amarena fa veramente schifo (con tutto il rispetto per l’amarena). 
 
E’iniziato un periodo buio, in cui mi ritrovavo (ma anche senza –avo) stesa per terra, al buio, a chiedermi se con la mia bruttezza potessi infettare chi mi stava (anche senza –ava) attorno. 
Guardavo le altre con metro di paragone, stavo in mezzo agli altri a disagio. (imperfetto- come me, ma potete leggerlo benissimo anche al presente). Quello che più mi ferisce e che mi tortura e mi fa torturare è il mio naso, perché credo che sia la causa di tutto quando in realtà so bene che la causa di tutto sta nella mia testa e in quei mostri che mi sono (hanno) creata (creato).
Vorrei essere completamente diversa rispetto a ciò che vedo riflesso, i fianchi, il naso, le occhiaie genetiche che continuo a coprire col correttore che compro e ricompro e che ‘casualmente’ finisce in fretta, troppo in fretta.
E io continuo a vedermi, ma non mi vedo. Continuo a scavarmi, ma non mi trovo. 
O almeno vengo descritta diversamente, vengo rappresentata diversamente, ma io (secondo me) sono tutt altro. 
Cosa c’entra quindi il femminismo? 
C’entra perché un venerdì sera facendo zapping mi sono accorta che ancora oggi danno in onda un programma che si chiama “ciao Darwin” e ho collegato la mia autostima annullata a tutto ciò che mi circonda. 
Mi sono chiesta quante immagini mi passano davanti ogni giorno, è come stare in guerra: un bombardamento di immagini, di figure, di colori e di suoni e io da studentessa di comunicazione mi sono risposta da sola. 
Il mattino seguente sono letteralmente corsa da una professoressa che poi sarebbe diventata la mia relatrice e le ho imposto la mia idea di tesi: stereotipi e mercificazione del corpo femminile in pubblicità, televisione e media. 

Merce, prodotto, involucro sfavillante, packaging, scatole vuote, cornici mute, chi lo ha deciso e perché? 
Perché siamo costrette a guardarci con occhi maschili? Perché siamo costrette a stare in gabbia, intrappolate in questa società e questo sistema intrinseco? 
Non lo so chi è stato, ma vorrei davvero dirgliene quattro. 
Il maschilismo è come un mostro che ci costringe a vivere limitate. Ed è intrinseco a tutt*, senza distinzione. 
Lo slut shaming, il catcalling, il revenge porn, il body shaming e tante altre parole che usiamo  per fare riferimento a tutte quelle categorie che poi non sono altro che sintomi e manifestazioni di questa società patriarcale e maschilista e che io metto sotto una categoria cioè quella dei “rattus*” (sì, sono terrona)—> NB: faccio riferimento  a qualsiasi genere, perché è davvero un problema di tutti.
Per questo dovremmo essere TUTTI femministi. 
Io lotto ogni giorno, con il mio attivismo online e offline, e proprio qualche giorno fa una ragazza mi ha scritto in dm: come fai a non arrenderti? 
E’ difficile, io stessa spesso perdo la pazienza per spiegarmi, io stessa spesso vengo insultata, giudicata anche solo quando provo a “normalizzare” tutto ciò e a “denunciare” l’altro ciò, ma no, non mi arrendo. 
Intanto mi abbraccio e abbraccio chi come me, a causa di tutto ciò respira a fatica. Chi come me si sente con le gambe nelle sabbie mobili, e con la mente in in un vicolo cieco. 
Questo mondo è stretto, ma se ci teniamo per mano lo allarghiamo e faremo spazio con la nostra voce ad un mondo più egualitario. 
Io ci sto. E voi?